Sono sempre più convinta che oggi le triestinissime “patate in tecia” siano diventate un po’ come l’araba fenice: “che vi siano ciascun lo dice, dove siano nessun lo sa”.
In ricordo degli anni vissuti a Trieste, mi ostino ad ordinarle quando le trovo fra le proposte di qualche ristorante, pur sapendo che la delusione arriverà immancabile di fronte al solito, sconsolante mucchietto di patate bianchiccio e grumoloso, che sa solo di cipolla semicruda e sale.Mi consolo con Cesare Fonda che scrive nella sua “cucina carsolina” : “…è questo il tributo al ritmo frenetico della vita moderna, per il quale le due ore abbondanti necessarie per preparare come si deve questo contorno sono considerate una follia”.
Iniziamo dunque dalla “tecia”, quindi dalla padella. I cultori raccomandano che deve essere in ferro, sempre la stessa, mai lavata ma sempre e solo pulita con carta ruvida o con un canovaccio pulito ed asciutto. Dimenticate dunque le padelle antiaderenti perché non vi permetteranno mai la formazione della tipica crosta dorata che distingue le vere patate in tecia dalle maldestre imitazioni.
Secondo i manuali della cucina triestina le patate, del tipo farinoso, vanno lessate in precedenza, sbucciate, quindi schiacciate grossolanamente con la forchetta direttamente nella padella dove in precedenza si sarà fatta stufare, nell'olio o nello strutto, la cipolla affettata sottilmente.
Salate, pepate e proseguite la cottura a calore moderato, mescolando le patate di tanto in tanto in modo da permettere la formazione di quella crosticina che sarà rimossa col cucchiaio di legno ed incorporata alle patate.
Particolare attenzione va messa anche nella cottura della cipolla che dovrà essere fatta lentamente, con aggiunte graduali di pochissima acqua alla volta e facendola completamente evaporare prima di aggiungerne dell’altra.
Per 1 kg di patate basteranno 1 grossa cipolla, 3 cucchiai di olio o altrettanti di strutto, sale e pepe.
Tanta pazienza e altrettanta bravura, ma il risultato saprà ricompensarvi.
Lucia
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